Ambiente: tema sempre più attuale e urgente e l’Europa rafforza le tutele
In arrivo, nei prossimi due anni, nuovi reati ambientali e pene più severe, alla luce della nuova Direttiva europea per la tutela dei crimini contro l’ambiente.
Il 26 marzo 2024 il Parlamento Europeo e il Consiglio hanno approvato una nuova Direttiva sulla tutela penale dell’ambiente.
L’Unione Europea è intervenuta fino ad ora sul tema, in particolare, con la Direttiva (UE) 2008/99, recepita in Italia dal D.Lgs. 121/2011 che ha introdotto, ad esempio, nel codice penale il reato di distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (art. 737-bis), e ha inserito i reati ambientali nel catalogo di quelli presupposto della responsabilità degli enti ex art. 25-undecies D.Lgs. 231/2001.
Tuttavia, le tutele fino ad ora adottate dai Paesi europei sulla scia dei predetti atti – si legge nella nuova Direttiva - “non sono state sufficienti a garantire la conformità con il diritto dell'Unione in materia di tutela dell'ambiente. […] L'aumento dei reati ambientali e dei loro effetti, che compromettono l'efficacia del suo diritto ambientale, continua a destare preoccupazione nell'Unione”.
Secondo l’Interpol e il programma delle Nazioni Unite, infatti, il danneggiamento dell’ambiente già dal 2021 costituisce la quarta attività criminale al mondo.
E comunque l’intento che si vuole così perseguire non stupisce, alla luce del cambiamento climatico che è diventato una vera e propria crisi e della crescente presa di consapevolezza dell’importanza vitale del rispetto dell’ambiente, tanto che il nostro Paese si è impegnato costituzionalmente a tutelare la biodiversità e gli ecosistemi e parallelamente gli Stati europei si sono prefissati di raggiungere la c.d. neutralità climatica.
Con la nuova Direttiva vengono, quindi, definite le condotte che gli Stati membri devono prevedere nei propri ordinamenti come “reati ambientali”, in aggiunta a quelli già contemplati.
Sono tutte caratterizzate da un elemento: provocare, anche solo potenzialmente, il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell'aria, suolo, acque, all’ecosistema, fauna o flora.
Rientrano, ad esempio, il commercio illegale di legname; l’esercizio o la chiusura di un impianto in cui sono immagazzinate sostanze pericolose.
Per dissuadere dalla commissione di tali reati, la Direttiva prevede sanzioni particolarmente severe: reclusione non inferiore a 10 anni, multa non inferiore al 5% del fatturato mondiale totale dell’ente o a 40 milioni di euro o misure accessorie come l'obbligo di ripristinare l'ambiente, in aggiunta a quelle già previste dal nostro ordinamento (art. 9 D.Lgs. 231/2001).
Ben più aspre dovranno essere poi le conseguenze nel caso in cui venisse provocata la distruzione di un ecosistema di volume considerevole o di un habitat protetto o danni irreversibili o duraturi agli stessi.
Cosa fare allora? In attesa di conoscere come sarà recepita la Direttiva da parte del nostro legislatore, si può iniziare a (ri)valutare i rischi ambientali aziendali e le misure organizzative attuate per prevenirli (compresa l’adozione/l'aggiornamento del Modello 231).
L’Unione Europea è intervenuta fino ad ora sul tema, in particolare, con la Direttiva (UE) 2008/99, recepita in Italia dal D.Lgs. 121/2011 che ha introdotto, ad esempio, nel codice penale il reato di distruzione o deterioramento di habitat all'interno di un sito protetto (art. 737-bis), e ha inserito i reati ambientali nel catalogo di quelli presupposto della responsabilità degli enti ex art. 25-undecies D.Lgs. 231/2001.
Tuttavia, le tutele fino ad ora adottate dai Paesi europei sulla scia dei predetti atti – si legge nella nuova Direttiva - “non sono state sufficienti a garantire la conformità con il diritto dell'Unione in materia di tutela dell'ambiente. […] L'aumento dei reati ambientali e dei loro effetti, che compromettono l'efficacia del suo diritto ambientale, continua a destare preoccupazione nell'Unione”.
Secondo l’Interpol e il programma delle Nazioni Unite, infatti, il danneggiamento dell’ambiente già dal 2021 costituisce la quarta attività criminale al mondo.
E comunque l’intento che si vuole così perseguire non stupisce, alla luce del cambiamento climatico che è diventato una vera e propria crisi e della crescente presa di consapevolezza dell’importanza vitale del rispetto dell’ambiente, tanto che il nostro Paese si è impegnato costituzionalmente a tutelare la biodiversità e gli ecosistemi e parallelamente gli Stati europei si sono prefissati di raggiungere la c.d. neutralità climatica.
Con la nuova Direttiva vengono, quindi, definite le condotte che gli Stati membri devono prevedere nei propri ordinamenti come “reati ambientali”, in aggiunta a quelli già contemplati.
Sono tutte caratterizzate da un elemento: provocare, anche solo potenzialmente, il decesso o lesioni gravi alle persone o danni rilevanti alla qualità dell'aria, suolo, acque, all’ecosistema, fauna o flora.
Rientrano, ad esempio, il commercio illegale di legname; l’esercizio o la chiusura di un impianto in cui sono immagazzinate sostanze pericolose.
Per dissuadere dalla commissione di tali reati, la Direttiva prevede sanzioni particolarmente severe: reclusione non inferiore a 10 anni, multa non inferiore al 5% del fatturato mondiale totale dell’ente o a 40 milioni di euro o misure accessorie come l'obbligo di ripristinare l'ambiente, in aggiunta a quelle già previste dal nostro ordinamento (art. 9 D.Lgs. 231/2001).
Ben più aspre dovranno essere poi le conseguenze nel caso in cui venisse provocata la distruzione di un ecosistema di volume considerevole o di un habitat protetto o danni irreversibili o duraturi agli stessi.
Cosa fare allora? In attesa di conoscere come sarà recepita la Direttiva da parte del nostro legislatore, si può iniziare a (ri)valutare i rischi ambientali aziendali e le misure organizzative attuate per prevenirli (compresa l’adozione/l'aggiornamento del Modello 231).