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L’effettiva conoscenza della Società circa l’incompatibilità del suo rappresentante legale

La Cassazione chiarisce che l'incompatibilità del legale rappresentante ex art. 39 D. Lgs. 231/2001 deve essere oggetto di conoscenza effettiva e concreta da parte della Società indagata a sua volta.

Con la sentenza n. 34476, pronunciata il 23 maggio 2024 dalla sezione VI penale (depositata il 12 settembre 2024), la Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso proposto da una società avverso l’ordinanza del Tribunale che le ha precluso la possibilità di opporsi all’esecuzione di un sequestro preventivo a fini di confisca. Nel caso di specie, in particolare, il giudice di prime cure aveva dichiarato inammissibile la richiesta di riesame, in ragione del fatto che quest’ultima fosse stata avanzata (in violazione dell’art. 39, co.1, D. Lgs. 231/2001) dalla società per il tramite di un difensore nominato dal suo legale rappresentante al quale era stato contestato un delitto che, in quanto parte del catalogo dei reati “presupposto”, avrebbe potuto impegnare la responsabilità della società ai sensi del D. Lgs. 231/2001.
 
Nella motivazione con cui ha accolto le doglianze della società, la Cassazione ha ribadito - così confermando un precedente orientamento (Sez. VI, n. 41398 del 19 giugno 2009) in rapporto all’interpretazione dell’art. 39, co.1, D. Lgs. 231/2001, a mente del quale «L'ente partecipa al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, salvo che questi sia imputato del reato da cui dipende l'illecito amministrativo» - che il divieto di rappresentanza da parte del legale rappresentante sottoposto a indagini è assoluto e inderogabile: la sua ratio va rintracciata nella necessità di tutelare il diritto di difesa dell’ente, che risulterebbe gravemente compromesso dalla «insanabile ed obiettiva» situazione di conflittualità (sostanziale e processuale) in cui vertono i due soggetti. È, del resto, nel pieno interesse del soggetto collettivo dimostrare la propria estraneità rispetto alla condotta del proprio legale rappresentante (mediante, ad esempio, la prova che il reato è stata commesso attraverso un’elusione fraudolenta del Modello organizzativo 231 adottato).

Tuttavia, tale divieto, ricorda la Corte (argomentando sulla base di un proprio precedente a Sezioni Unite – n. 33041 del 28 maggio 2015), non può che divenire operativo soltanto dal momento in cui l’ente abbia acquisito effettiva contezza della vertenza del procedimento a suo carico e, di conseguenza, della situazione di incompatibilità sussistente col proprio rappresentante legale che nel medesimo procedimento figuri soggetto indagato. Dal che deriva l’inapplicabilità del divieto in parola nel caso in cui, ad esempio, alla società «precedentemente o contestualmente alla esecuzione del sequestro, non sia stata comunicata la informazione di garanzia prevista dall'art. 57 del d.lgs. medesimo».

Pertanto, nel caso deciso con la sentenza in commento, la Corte ha ritenuto che il giudice di primo grado, nel vagliare l’ammissibilità della richiesta di riesame, avrebbe dovuto, in ossequio ai principi testé richiamati, tenere in considerazione il bagaglio conoscitivo di cui la società avrebbe potuto in quel momento avvalersi, cioè verificare «cosa sia stato effettivamente comunicato all'ente e se l'ente, in concreto, al momento della proposizione della richiesta di riesame, fosse consapevole di essere indagato e dunque, fosse consapevole della incompatibilità assoluta del suo legale rappresentante, indagato a sua volta, in quanto autore dell'reato presupposto».